Le aree protette: ricerca scientifica e motori per la green economy

In un documentario del 2010, “Queen of the Sun”, alcuni scienziati lanciarono l’allarme contro l’intrusione delle attività antropiche negli ecosistemi naturali, sottolineando come le alterazioni nell’equilibrio ecologico delle specie viventi del nostro pianeta, per quanto minime siano queste alterazioni e per quanto apparentemente poco importanti siano le specie coinvolte, possano avere gravi ripercussioni difficilmente quantificabili sulla nostra esistenza.

La tutela della biodiversità costituisce un impegno importante nell’agenda politica mondiale, sancito a partire dal 1992 con l’istituzione della Convenzione per la Diversità Ecologica e recepito negli anni con una serie di documenti e strategie promulgate dall’UE e dall’Italia, tra cui la Strategia Nazionale per la Biodiversità del 2010.

Purtroppo è un dato di fatto che le buone pratiche e le strategie nazionali spesso rimangano semplicemente sulla carta, senza trovare applicazione concreta laddove ce ne sarebbe bisogno. Già nel 2010, lo scienziato Guillam Chapron affermò duramente che non solo gli obiettivi di salvaguardia della biodiversità non erano stati raggiunti, ma anche che le iniziative di tutela promesse dai governi vengono spesso contraddette da azioni in netto contrasto con i buoni propositi e mosse da logiche economiche, con l’idea che in tempo di crisi la risposta è quella di risparmiare dove sarebbe necessario investire.

Da questo punto di vista, i parchi naturali costituiscono un elemento importantissimo e dal valore inestimabile per la conservazione e la tutela della biodiversità, che è necessario difendere. Infatti, le aree protette consentono sia di interrompere o impedire la degradazione del territorio, sia di promuovere una gestione sostenibile delle sue risorse. Riescono altresì a contrastare la frammentazione degli habitat e permettono la conservazione delle reti ecologiche, indispensabili per lo sviluppo e il mantenimento del delicato equilibrio delle numerose specie di flora e fauna che vivono nel territorio.

Ma come riuscire a integrare queste necessità ambientali con quelle economiche e sociali, senza considerare i parchi come delle zavorre affamate di finanziamenti? Come valorizzarli rendendoli motore di sviluppo? Aumentare lo sforzo a sostegno alla ricerca scientifica integrata nella risorsa parco può costituire una valida soluzione.

Le aree protette, infatti, non dovrebbero essere intese come sistemi ideali chiusi senza interazioni e scambi con il mondo esterno, ma anzi devono interagire con esso in modo simbiotico proponendo nuovi modelli di sviluppo, anche e soprattutto tramite la spinta alla ricerca e all’innovazione eseguita al loro interno.

Alline Storni, ecologa ed ex responsabile per la gestione ambientale nella Reserva de desenvolvimento sustentável Mamirauá in Brasile, sostiene che il finanziamento della ricerca scientifica nei parchi è prioritario: “Solo conoscendo la biodiversità possiamo conservarla e sviluppare nuove strategie per salvaguardarla. In tutto il mondo, i parchi nazionali rappresentano i più importanti serbatoi di biodiversità e hanno il compito di preservare paesaggi, formazioni geologiche, flora, fauna o ambienti marini. I risultati ottenuti dalla ricerca sono utili per proteggere il futuro di tutte le specie, compresa la specie umana.”

I dati ottenuti, infatti, sono di estrema importanza. Gli studi sui flussi migratori degli uccelli, ad esempio, consentono di ottenere importanti informazioni indirette riguardo la risposta e l’adattamento delle specie al cambiamento climatico. Inoltre, secondo lo scienziato Ilkka Halski, gli effetti degli impatti provocati dalle attività antropiche sono ancora poco chiari e meno ricerche verranno effettuate, più saranno sconosciute le conseguenze delle nostre azioni.

La ricerca scientifica nei parchi, però, è particolarmente delicata perché implica un ampio dispiegamento di mezzi e tempi piuttosto lunghi, come spiegato da Storni: “I ricercatori partono dalla scelta dell’ambito di studio, a cui segue una ricerca bibliografica per capire lo stato dell’arte. Si passa quindi alla pianificazione del cosiddetto disegno sperimentale, che include la definizione della metodologia di raccolta e dei test statistici sui dati. In seguito vengono eseguite delle prove per valutare l’efficacia delle scelte pianificate. La durata di ogni ricerca varia secondo l’obiettivo e il tipo, ma molto incidono i finanziamenti”. Si potrebbe pertanto supporre che un tipo di ricerca del genere comporti investimenti troppo gravosi con bassi ritorni economici, difficili da sostenere, soprattutto in tempo di crisi. Invece Storni spiega che non è esattamente così. “Nella Reserva de Mamirauà è stata promossa una forma di turismo sostenibile che permette ai visitatori di conoscere l’area e le specie che l’abitano, anche con momenti di incontro educativi, organizzati in collaborazione con i ricercatori che condividono con i visitatori i risultati delle loro ricerche. La popolazione locale, invece, è impiegata nelle attività di gestione e manutenzione del parco. Gli accessi sono limitati e stabiliti in modo che i visitatori non possano disturbare le specie presenti, ma nonostante ciò i proventi ottenuti dal turismo permettono di coprire sia i costi di gestione della riserva, che finanziare le attività di ricerca.”

L’esperienza della  è la prova che le aree protette possono favorire lo sviluppo economico sostenibile di una regione, promuovendo la ricerca, impiegando la popolazione locale nelle attività e offrendo ai visitatori la possibilità di vivere un’esperienza diretta con la natura, anche dal punto di vista didattico. L’integrazione di questi aspetti e la collaborazione tra i diversi stakeholders permetterebbero di sfruttare appieno le potenzialità offerte da questa preziosa risorsa, offrendo anche un ottimo impulso per la green economy.

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