Il razzismo nel razzismo

La crescita del razzismo nella nostra società è stata, negli ultimi anni, ampiamente documentata. L’incremento dei flussi migratori che trovano meta nel nostro Paese è tra le cause più consistenti di questa tendenza (1) (2), e a poco o nulla valgono i continui interventi con cui gli scienziati ricordano che parlare di diverse razze umane non ha alcun fondamento scientifico (3) (4) (5).

All’aumento degli episodi e degli atteggiamenti di razzismo più noti, in cui alcune minoranze vengono discriminate per le caratteristiche che le differenziano rispetto alla maggioranza, si accompagnano fenomeni collaterali, ma non meno rilevanti.

Uno di questi è l’atteggiamento apertamente denigratorio che singoli membri di gruppi sociali che subiscono comportamenti razzisti esercitano nei confronti del loro stesso gruppo di appartenenza (6). A questa dinamica ci si riferirà, in questo articolo, con la locuzione “razzismo nel razzismo”. Non è inusuale, infatti, che all’interno di un gruppo etnico che subisce episodi di razzismo da parte della maggioranza del Paese ospitante vi siano individui che assumono lo stesso punto di vista e lo stesso linguaggio di quest’ultima. Un atteggiamento che può sembrare paradossale, ma che in realtà la psicologia sociale studia e spiega da decenni.

Questa disciplina analizza l’interazione tra individuo e gruppi. Tra i suoi ambiti di ricerca più importanti c’è lo studio delle forze esercitate sui singoli individui da parte del contesto sociale in cui essi si trovano a vivere e agire. Tra queste, una delle più rilevanti è quella del conformismo, definito come il comportamento con cui un individuo si adegua alle pressioni di un gruppo (7). Alla base dei comportamenti conformistici c’è la necessità, intrinseca in ogni essere umano, di essere accettato dal gruppo. Le sue principali componenti sono: la tensione all’interno del soggetto, che subisce pressioni tanto dalle posizioni originarie quanto da quelle a cui tende ad adeguarsi; l’adesione del soggetto a ciò che gli viene consigliato; la negazione degli elementi dello status precedente, e l’affermazione del soggetto tramite l’adozione di nuovi comportamenti (7).

La tendenza a conformarsi all’opinione maggioritaria non basta, da sola, a spiegare il fenomeno del “razzismo nel razzismo”. Nel caso delle discriminazioni, la presenza di scale gerarchiche tra i diversi gruppi (e cioè la presenza di uno o più gruppi che dominano sugli altri) gioca un ruolo decisivo nelle scelte del singolo.

Si tratta di un aspetto cruciale, studiato da Tajfel e Turner a partire dagli anni ’70. Questi ricercatori, nella loro fondamentale Teoria dell’Identità Sociale, individuano la possibilità di movimento da un gruppo svantaggiato ad uno più premiante (8). In questa strategia, l’individuo tenta di uscire dal proprio gruppo sociale percepito come svalutato,  arrivando persino a negarne l’appartenenza originaria. La spinta che lo porta ad assumere questo atteggiamento è il tentativo di entrare a fare parte di un gruppo valutato più positivamente.

Queste analisi spiegano le cause degli spostamenti degli individui da un gruppo all’altro. Non esauriscono, però, il tema dell’assunzione di atteggiamenti discriminatori propri della maggioranza da parte dei membri di minoranze svantaggiate.

Il più importante riferimento per questo ambito di studi è il lavoro dello psicologo Kurt Lewin, che focalizzò le sue ricerche sul gruppo sociale costituito dagli ebrei (9). Lewin analizzò le condizioni dei membri del gruppo prima e dopo le persecuzioni subite in Europa dai regimi nazifascisti: durante il periodo dei ghetti, quando barriere letteralmente fisiche rendevano completamente impossibili i contatti con la maggioranza, il gruppo ebraico risultava estremamente coeso. Nel momento in cui le barriere tra i gruppi divennero più permeabili, si verificò ciò che fisiologicamente avviene nelle società aperte e democratiche: crebbero i punti di contatto, e con essi la possibilità di movimento da un gruppo all’altro. Quest’apertura non mutò i sostanziali rapporti gerarchici tra gruppi: gli ebrei rimanevano una minoranza “sottomessa” nei Paesi in cui risiedevano. Questa, come già visto, è la condizione sostanziale che motiva i singoli a passare da un gruppo svantaggiato a un gruppo dominante. Tra i contributi originali di Lewin c’è l’aver notato che l’intensità del desiderio con cui un individuo cerca una collocazione sociale migliore è direttamente proporzionale al grado di permeabilità dei confini tra un gruppo e l’altro: più fitti sono gli scambi tra i gruppi, e più probabilmente avverranno spostamenti dal basso verso l’alto.

Lewin constatò inoltre che, nel corso del passaggio da un gruppo all’altro, gli individui in procinto di trasferirsi si rendevano protagonisti di una dinamica che chiamò “sciovinismo negativo”: i soggetti in questione arrivavano ad esercitare vere e proprie forme di “odio” nei confronti del gruppo originario, disprezzandone apertamente i membri e assumendo anche i tratti più dichiaratamente razzisti diffusi nella maggioranza. La ragione che spiega questo fenomeno, sempre secondo Lewin, è che entrare a far parte del gruppo dominante richiede l’accettazione delle norme che in esso hanno vigore. Una esigenza così forte da spingere a “odiare” i membri del proprio gruppo, pur di cambiare appartenenza.

Il fenomeno che è stato qui chiamato “razzismo nel razzismo” si verifica, dunque, nel momento in cui un gruppo di minoranza intensifica gli scambi con il gruppo dominante all’interno del processo di integrazione. È una dinamica che avviene in una fase cruciale: quella in cui le condizioni del contesto sociale in cui agiscono i gruppi consentono un loro avvicinamento, iniziando ad appianare le diversità. La naturale forza attrattiva che la maggioranza esercita sulle minoranze rischia di ostacolare il processo di integrazione, influenzando singoli individui ad assumere atteggiamenti che contribuiscono a mantenere dislivelli tra gruppi. Non solo: il “razzismo nel razzismo” si presta ad essere  strumentalizzato da quella parte di maggioranza interessata a mantenere lo status quo.

Si tratta, in conclusione, di un fenomeno complesso, con ricadute potenzialmente disgreganti. Allo stesso modo, è un elemento  sempre più presente nelle moderne società multietniche. Per gestirlo correttamente, con coscienza della sua solo apparente paradossalità, le conoscenze maturate dalle scienze sociali dovranno trovare sempre più spazio all’interno del dibattito pubblico.

 

Fonti

  1. AA. VV. (2014) Cronache di ordinario razzismo. Open Society Foundation: Roma.
  2. Cadalanu G. (22/2/2018) Rapporto Amnesty International: in Italia crescono razzismo e xenofobia. http://www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2018/02/22/news/amnesty_international_rapporto_italia_razzismo_xenofobia-189439443/
  3. Conley D., Fletchet J. (1/6/2017) What both the left and the right get wrong about racism. http://nautil.us/issue/48/chaos/what-both-the-left-and-right-get-wrong-about-race
  4. AA.VV. (11/10/2017) Le razze umane non esistono. La prova è nel nostro genoma. http://www.lastampa.it/2017/10/11/scienza/le-razze-umane-non-esistono-la-prova-nel-nostro-genoma-QMWssd1Wo7euOul2YNkOfL/premium.html
  5. Dalla Casa S. (20/1/2018) La storia del concetto (ormai superato) di razza umana. https://www.wired.it/play/cultura/2018/01/20/storia-concetto-razza-umana/
  6. Acquarone A. (8/5/2014) Il razzismo degli immigrati: “Non vogliamo stranieri”. http://www.ilgiornale.it/news/interni/italia-si-sono-rifatti-vita-ora-ci-criticano-frontiere-1017145.html
  7. Delcuratolo C. (8/9/2016) Conformismo e obbedienza. Gli esperimenti di Milgram e Zimbardo, la critica di Haslam e Reicher. http://rivistapiesse.altervista.org/titolo-cosimo-delcuratolo/
  8. Amerio P. (2007) Fondamenti di psicologia sociale Il Mulino: Bologna
  9. Lewin K. (2005) La teoria, la ricerca, l’intervento il Mulino: Bologna

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