La misura di quanto si impara

“Mi ha chiesto l’unico capitolo che avevo saltato!”, “Sapevo tutto ma ero agitata e ho avuto un vuoto all’orale”, “Ho sbagliato i calcoli, ma per colpa di un errore di distrazione”.
Sicuramente chiunque, nel corso della propria lunga carriera scolastica, ha pronunciato alcune di queste frasi, con l’evidente sottointeso che il vuoto avuto non era una fedele rappresentazione di quanto si aveva studiato.
L’interrogazione, la prova scritta, il problema da risolvere ci mettono sotto esame e, fin dai primi anni di scuola, pur senza sapere cosa fosse il riduzionismo, abbiamo trovato conveniente appellarci alla incompletezza dello strumento, per giustificare i nostri fallimenti.

Non lo sapevamo, ma il dibattito è quanto mai attuale a questo proposito.

Un nuovo tipo di prova ha scoperto il vaso di Pandora degli esiti scolastici: i test Invalsi e Pisa.

Una manciata di domande, poco tempo a disposizione, uno standard identico per tutti, l’ambizione di misurare quanto ha imparato uno studente, un apprendimento condizionato dalla variabilità del metodo di studio, del gruppo scolastico, dell’intera cultura di appartenenza.
Tutto sembra  suggerire un approccio decisamente riduzionista a un problema tanto complesso.

Genitori, insegnanti ed esperti sono insorti, additando i test Invalsi come inutili, una perdita di tempo, un sistema iniquo per trarre delle conclusioni.
Appunto, le conclusioni. Se ne parla poco, eppure sul sito dell’ente che li promuove si trova la risposta, meticolosamente organizzata in grafici e commenti.

Bisogna ricordare che il risultato non va letto in termini di singolo alunno, insegnante o istituto scolastico, ma che assume significato quando viene inserito in un contesto più ampio, regionale o nazionale. È una sottigliezza statistica, la forza dei grandi numeri, dalla quale non si può prescindere.

I risultati sono eloquenti. L’Italia è nelle retrovie della graduatoria rispetto agli altri paesi occidentali nei test Pisa. All’interno dell’Italia la disparità è evidente tra nord e sud, tra ceti sociali agiati e ceti sociali più poveri, tra figli di immigrati e non. Non solo, alle elementari il divario tra maschi e femmine dei risultati in matematica è quasi inesistente, per poi diventare sempre più ampio durante le scuole superiori.
Saranno test riduzionisti, o anche solo riduttivi, eppure i risultati che danno sono perfettamente coerenti con lo spaccato di realtà italiana che stiamo vivendo.

Un paese ai primi posti nel mondo per analfabetismo funzionale, come ricordava anche Tullio De Mauro, un paese dove la mobilità sociale è quasi inesistente (un articolo di Business Insider titolava “Le famiglie ricche di Firenze sono sempre le stesse dal Rinascimento. Alla faccia della mobilità sociale”). Del resto già Gramsci diceva che la scuola troppo facile di oggi non è democratica. Peggio di tutto, un paese dove il divario tra uomo e donna inizia a scuola: nonostante le attitudini da bambini siano identiche, sono le ragazze che vengono allontanate dal mondo della matematica e della tecnica, presagendo un futuro in cui saranno allontanate dalle posizioni dirigenziali.

Da una parte c’è la complessità del sistema scolastico, dall’altra la complessità della società e del mondo del lavoro in cui si troverà lo studente da adulto. In mezzo c’è uno strumento – il test – che, nella sua semplicità, mette in relazione due realtà complesse. Un’attenta analisi delle criticità del sistema scolastico, a livello collettivo, non può che giovare alla costruzione della società del futuro.

Stimolando anche una riflessione a livello personale. Tutte le volte che a scuola ci siamo appigliati all’errore di distrazione, all’emozione della prova orale, alla sfortuna, avrebbero dovuto avvisarci che durante il resto della nostra vita ci sarebbero stati errori di distrazione non ammissibili, colloqui di lavoro dove non potevamo emozionarci, clienti che ci avrebbero chiesto proprio quell’unico prodotto che non avevamo pronto.


Foto di White77 da Pixabay

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