L’inglese nella scienza: una critica logica

Cosa implica la tendenza della comunicazione pubblica delle scienze a un progressivo e crescente utilizzo di termini inglesi rispetto a quelli italiani? Cosa motiva tale preferenza?

Questo fenomeno di pervasività del dizionario inglese nella nostra lingua può essere analizzato da un punto di vista logico oltre che indagare le ragioni pragmatiche e di prestigio che motivano questa adozione.

Maria Luisa Villa parla dell’inglese come “lingua veicolare (2013, pp. 1-21) della comunità scientifica, così come di un numero sempre crescente di atenei del nostro paese e del mondo dell’editoria specializzata. Questo perché in un contesto europeo di forte mobilità culturale l’italiano non è una vera risorsa semantica rispetto all’inglese. Ma perché? E ne siamo sicuri?

Dobbiamo supporre che la nostra lingua non possieda termini adeguatamente esaustivi per comunicare i concetti di cui la scienza è depositaria e considerare la terminologia inglese più come una qualità: una “virtù teorica” come direbbero filosofi regolaristi.

In questo senso, potremmo avvalerci dell’approccio Best System Account (J.S. Mill, F.P. Ramsey, D.K. Lewis) per motivare questa scelta. Secondo questo approccio, i criteri per la definizione della migliore tra due teorie rivali devono essere di ordine ontologico, ovvero la parsimonia delle entità postulate, e di ordine sintattico, cioè la dimensione del vocabolario con cui quella teoria viene espressa. Delle virtù teoriche appunto.

Ecco che allora dovremmo considerare l’utilizzo dell’inglese preferibile poiché presenta predicati esaurienti in quanto sintatticamente più eleganti.

Nel momento in cui però sono introdotti nuovi termini nel linguaggio scientifico formalizzato ecco che sorgono problemi non indifferenti. Certamente nuove conoscenze necessitano di nuove parole per definirle. Ma se si propende, con un criterio sintattico, a definizioni in una lingua alternativa alla lingua madre con cui tracciamo la realtà empirica si opera una scelta arbitraria anche tra termini ontologicamente più complicati e con una base teorica complessa, la quale andrà incontro a una inevitabile riduzione. Il “Grue e Bleen Paradox” di Nelson Goodman (1955, pp. 72-81) esprime chiaramente il problema sopra citato:

Possiamo esprimere l’inferenza “Tutti gli smeraldi osservati fino ad ora sono verdi” in due generalizzazioni, espresse in un linguaggio (di fatto l’italiano) ma che è formalizzato:

  • Tutti gli smeraldi sono verdi (Hp1).
  • Tutti gli smeraldi osservati fino a un momento sono verdi e dopo questo sono blu (Hp2).

Hp1 risulta sintatticamente più semplice di Hp2, ma ciò dipende fortemente dal linguaggio in cui le due generalizzazioni sono espresse. Se provassimo ad esprimere i due predicati in una lingua alternativa potremmo avvalerci dei termini:

  • grue”: un oggetto è grue solo se è verde osservato fino a un certo momento e dopo questo è blu.
  • bleen”: un oggetto è bleen solo se è blu osservato fino a un certo momento e dopo questo è verde.

In termini “grue” e “bleen” possiamo definire “verde” e “blu”:

  • “verde”: un oggetto è verde solo se è grue osservato fino a un certo momento e dopo questo è bleen.
  • “blu”: un oggetto è blu solo se è bleenosservato fino a un certo momento e dopo questo è grue.

Nei termini delle nostre nuove definizioni si possono ri-formulare Hp1 e Hp2:

  • Tutti gli smeraldi osservati fino a un momento sono grue e quelli osservati dopo questo sono bleen (Hp1*).
  • Tutti gli smeraldi sono grue (Hp2*).

Nel nuovo linguaggio ora è Hp2* ad essere la generalizzazione più semplice sintatticamente, tuttavia il termine introdotto postula molte entità che vanno incontro a una riduzione concettuale.

Il caso dell’inglese è paradigmatico in tal senso perché la sola semplicità sintattica nell’introduzione dei nuovi termini non è sufficiente a livello esplicativo. Infatti questa va valutata solo relativamente a un linguaggio “canonico” (David K. Lewis (1983) parla di un “linguaggio perfettamente naturale”) e nel momento in cui ci avvaliamo di questo criterio non assolviamo il compito di dare più chiarezza alla comunicazione pubblica della scienza e tecnica. 

Ecco che termini ormai frequenti nella tradizione scientifica come accountability impropriamente usato col significato di “responsabilità/responsabilizzazione” e dissemination con “comunicazione” non sono semplicemente intercambiabili perché presentano differenze qualitative e quantitative nelle entità che postulano. Si incorre così nel riduzionismo quando arbitrariamente si tende a uniformare termini inglesi sostanzialmente complessi a generalizzazioni della lingua italiana in un processo non di traduzione, bensì di sostituzione approssimata.

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