Cinquanta sfumature di Green

Gli esordi del Greenwashing

Il greenwashing rappresenta la pratica aziendale di mostrarsi attenti alla sostenibilità per coprire un discutibile impegno alla salvaguardia ambientale.

Il termine “greenwashing” è stato coniato dall’ambientalista Jay Westerveld nel 1986, quando la maggior parte dei consumatori si informava attraverso la televisione, la radio e la stampa – gli stessi media che le aziende inondavano regolarmente con campagne pubblicitarie molto costose.La combinazione di un accesso pubblico limitato alle informazioni e di una pubblicità apparentemente illimitata ha permesso alle aziende di presentarsi come più conveniva loro ovvero come attenti paladini ambientali, anche quando non lo erano affatto.

L’articolo del quotidiano britannico The Guardian The troubling evolution of corporate greenwashing”, pubblicato nell’agosto 2016, ne ripercorre alcune tappe mettendone in luce gli aspetti più torbidi.

I primi esempi di questo fenomeno risalgono agli anni Sessanta, molto prima che questo termine venisse coniato e che il fenomeno in sé fosse delineato e riconoscibile.

Negli anni sessanta, il movimento antinucleare contestava l’affidabilità delle centrali nucleari sollevando dubbi sulla loro sicurezza e sul loro impatto ambientale. Il colosso americano Westinghouse, in particolare la divisione nucleare, ribatteva con una serie di annunci che proclamavano la pulizia e la sicurezza delle centrali nucleari avvalendosi di immagini evocative come quella di una centrale nucleare adagiata sulla riva di un lago incontaminato.

Alcune delle affermazioni degli spot erano vere: nel 1969, le centrali nucleari della Westinghouse producevano grandi quantità di elettricità a basso costo con un inquinamento atmosferico molto inferiore rispetto alle centrali a carbone concorrenti. Tuttavia le pubblicità sembravano ignorare che solo qualche anno prima si erano verificati due episodi di meltdown nucleare: uno interessò la centrale SL-1 in Idaho nel 1961 e il secondo la centrale Fermi 1 in Michigan nel 1966. Gli annunci della Westinghouse tralasciavano anche le preoccupazioni sull’impatto ambientale delle scorie nucleari, che continuano ad essere un problema.

Si potrebbe pensare che le cose nel tempo siano migliorate, ma nel 2013, in mezzo alle preoccupazioni per la disoccupazione e per la sostenibilità energetica, la Westinghouse ha lanciato un nuovo spot. “Lo sapevate che l’energia nucleare è la più grande fonte di energia per l’aria pulita del mondo?”, ha chiesto agli spettatori poco prima di affermare che le sue centrali nucleari “forniscono aria più pulita, creano posti di lavoro e aiutano a sostenere le comunità in cui operano”.

Anche qui l’azienda sembrava sperasse nella breve memoria dei consumatori. Solo due anni prima infatti, la Westinghouse era stata citata dalla U.S. Nuclear Regulatory Commission, agenzia indipendente che ha lo scopo di garantire l’uso sicuro dei materiali radioattivi per scopi civili benefici, per aver nascosto delle falle nei progetti dei suoi reattori e aver fornito informazioni false alle autorità di controllo. Inoltre, nel febbraio 2016, un altro impianto che utilizza i reattori della Westinghouse, l’Indian Point di New York, ha rilasciato  materiale radioattivo nelle acque sotterranee dell’area circostante.

Un articolo del The Guardian sulla vicenda riporta che in una località colpita i livelli di radioattività erano aumentati di quasi il 65.000%, passando da 12.300 pCi/L (picocurie per litro) a oltre 8.000.000 pCi/L. Il livello massimo di contaminazione di trizio nell’acqua potabile stabilito dall’Environmental Protection Agency (EPA) è di 20.000 pCi/L, anche se Entergy, la società proprietaria dell’impianto, ha sottolineato che solo le acque sotterranee, e non l’acqua potabile, erano state contaminate.

Un’altra tappa emblematica nella storia del greewashing fu la campagna pubblicitaria lanciata dalla compagnia petrolifera Chevron a metà degli anni ’80. L’azienda commissionò una serie di costosi spot per convincere il pubblico della sua attenzione verso l’ambiente. Il titolo era “People Do” e se ne può osservare un esempio nel seguente video.

Questo spot in particolare mostra un Greetzly andare in letargo in una incontaminata grotta di montagna mentre la voce fuori campo racconta di come i loro dipendenti avrebbero eseguito esplorazioni di petrolio nel sottosuolo, per poi provvedere a ripristinare eventuali danni ambientali in tempo per il risveglio dell’orso.

Molti dei programmi ambientali che la Chevron ha promosso nelle sue pubblicità, come in questo caso, erano stati in realtà imposti dalla legge. Erano anche relativamente poco costosi se confrontati con il budget pubblicitario della Chevron. L’attivista ambientale Joshua Karliner ha stimato che, ad esempio, la realizzazione della campagna di tutela delle farfalle della Chevron richiedeva 5.000 dollari all’anno, mentre la produzione e diffusione degli annunci pubblicitari per promuoverla costarono milioni di dollari.

Inoltre nel periodo in cui veniva lanciata la campagna “People Do”, la Chevron violava il Clean air act e il Clean water act, le leggi federali che regolano le emissioni atmosferiche e gli scarichi di sostanze inquinanti nelle acque degli Stati Uniti in vigore rispettivamente dal 1970 e 1972, e rilasciava petrolio in rifugi dedicati alla fauna selvatica.

Gli spot tuttavia furono molto efficaci tanto da vincere il premio pubblicitario Effie advertising award nel 1990, e successivamente essere utilizzati come caso di studio alla Harvard Business School. Ma non passò molto prima che diventassero famosi anche tra gli ambientalisti, che li proclamarono il gold standard del greenwashing.

Da dove nasce la parola Greenwashing?

Nel 1983, Jay Westerveld ancora studente universitario in un viaggio di ricerca a Samoa, si fermò alle Fiji per fare surf. Trovandosi nell’immenso Resort Beachcomber, vide un biglietto che chiedeva ai clienti di ritirare i loro asciugamani. In sostanza diceva che gli oceani e le scogliere sono una risorsa importante, e che il riutilizzo degli asciugamani ridurrebbe i danni ecologici e finiva dicendo qualcosa del tipo: “Aiutateci ad aiutare il nostro ambiente”.

Westerveld in realtà non alloggiava nel resort, ma in una pensione modesta nelle vicinanze, e si era appena intrufolato per rubare degli asciugamani puliti. Rimase colpito dall’ironia della nota: mentre sosteneva di proteggere l’ecosistema dell’isola infatti il Beachcomber – che oggi si definisce “la destinazione più ricercata del Pacifico meridionale” – si stava espandendo.

Tre anni dopo, nel 1986, Westerveld stava scrivendo una tesina sul multiculturalismo quando si ricordò della nota. Un suo compagno di corso che lavorava per una rivista letteraria gli fece scrivere un saggio a riguardo e dato che la rivista aveva molti lettori nella vicina New York City, non passò molto tempo prima che il termine prendesse piede nei media principali.

Il saggio di Westerveld uscì un anno dopo il lancio della campagna People Do, ma la Westinghouse e la Chevron non furono le uniche azienda a cavalcare l’onda del greenwashing.

Il caso DuPont

Nel 1989, l’azienda chimica DuPont presentò le sue nuove petroliere a doppio scafo con una pubblicità che mostrava animali marini battere le pinne e le ali sulle note dell’Inno alla gioia di Beethoven (https://youtu.be/zJZFfeLRCJs). Tuttavia, come ha sottolineato l’associazione nonprofit Friends on Earth nel suo rapporto Hold the Applause, la società è stata la più grande inquinatrice degli Stati Uniti.

La decennale battaglia legale tra la multinazionale DuPont e l’avvocato Robert Bilott è descritta nell’articolo del New York Times Magazine “The Lawyer Who Became DuPont’s Worst Nightmarepubblicato nel gennaio del 2016. La vicenda ha inizio nel 1998 quando l’avvocato valuta la condotta dell’azienda dopo la richiesta di un contadino sicuro che questa stesse contaminando i suoi terreni.

Dopo diverse ricerche Bilott trova rimandi al PFOA, un composto chimico allora sconosciuto anche all’EPA. Si stima che tra il 1951 e il 2003 la DuPont abbia riversato quasi 7100 tonnellate di PFOA-C8 nei corsi d’acqua limitrofi al suo stabilimento di Washington Works, fino a contaminare il vicino fiume Ohio. Grazie al report compilato da Bilott e inviato al Dipartimento di giustizia di Washington e all’EPA, nel 2005 l’ente ambientale multa la DuPont per 16,5 milioni di dollari – una cifra irrisoria rispetto al fatturato annuale dell’azienda – per aver insabbiato i rischi legati allo smaltimento del PFOA.

Dopo la sentenza Bilott decide di non fermarsi e organizza una class action collettiva che coinvolge tutte le persone entrate in contatto con l’acqua contaminata da PFOA (almeno 100mila persone).

Dopo 7 anni di ricerche nel dicembre del 2011 arrivano i risultati, i ricercatori parlano di “probabili legami” tra il PFOA e l’insorgere di cancro ai reni e ai testicoli, disfunzioni della tiroide, picchi del colesterolo e ulcere intestinali. Quando il nesso è evidente, la DuPont cerca di limitare i danni portando in tribunale uno alla volta gli oltre 3500 contenziosi intentati nei suoi confronti. Dopo la vittoria di Bilott nei primi tre contenziosi e i risarcimenti milionari imposti alla DuPont, nel 2017 l’azienda chimica ha deciso di accettare la class action guidata dall’avvocato e di accordarsi per una maxi multa da 671 milioni di dollari

L’Agenzia per la protezione ambientale statunitense (EPA) ha affermato che i dati oggi disponibili suggeriscono un possibile legame causale tra PFOA (e altri composti simili) e il cancro; l’American Conference of Governmental Industrial Hygienists (ACGIH) ha classificato il PFOA come cancerogeno confermato negli animali, con rilevanza ancora incerta per gli esseri umani (ATSDR 2015).

Nel 2016 l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC), ente con sede a Lione (Francia) e legato all’Organizzazione mondiale della sanità, ha classificato il PFOA nel gruppo 2B, del quale fanno parte le sostanze “possibilmente cancerogene per l’uomo”.

Cos’è l’Azionariato attivo?

All’inizio degli anni Novanta, i consumatori erano consapevoli delle preoccupazioni in materia di sostenibilità: i sondaggi hanno mostrato che la condotta ambientale delle aziende ha influenzato la maggior parte degli acquisti dei consumatori. Un sondaggio Nielsen del 2015 ha mostrato che il 66% dei consumatori globali è disposto a pagare di più per prodotti sostenibili dal punto di vista ambientale. Tra i millennial (ovvero le generazioni nate tra il 1981 e il 1996), questo numero salta al 72%. Molte aziende hanno adottato la strategia della sensibilizzazione con lo scopo di coinvolgere i clienti nei loro sforzi di sostenibilità, anche quando il loro modello di business principale rimane insostenibile dal punto di vista ambientale.

Questo interesse per l’ambiente ha portato a una maggiore consapevolezza del greenwashing; alla fine del decennio, la parola è entrata ufficialmente nella lingua inglese con l’inserimento nel dizionario inglese di Oxford. Da allora, la tendenza è solo aumentata. Grazie all’identificazione e alla conoscenza del fenomeno, il consumatore ha aguzzato lo spirito critico e quando nel 2010 la stessa Chevron ha proposto una nuova campagna pubblicitaria dal titolo “We Agree”, gli attivisti dell’associazione The Yes Man hanno prontamente risposto. Per screditare la Chevron hanno creato una finta versione della stessa campagna con tanto di sito internet e comunicato stampa, che i giornalisti hanno prese per vere.

I consumatori hanno inoltre sviluppato strategie per riuscire a imporre alle aziende il peso della loro opinione.

In molti Paesi infatti è nata una nuova forma di intervento: l’azionariato attivo (o critico). Grazie all’acquisto di azioni (anche in quantitativi simbolici), gli attivisti hanno iniziato a intervenire alle assemblee annuali delle imprese come azionisti, portando all’attenzione dei consigli di amministrazione di grandi società multinazionali le controversie ambientali nelle quali sono coinvolte. L’azionariato attivo ha già dato risultati significativi. Le grandi imprese, molto spesso sorde alle proposte dei consumatori, delle campagne e dei movimenti, sono generalmente più attente alle richieste provenienti dagli azionisti che, in quanto “comproprietari”, acquistano il diritto di partecipare alla vita delle società e di ottenere risposte su questioni ambientali o sociali. È quello che ha fatto Follow This, un’organizzazione che invita chiunque abbia a cuore l’ambiente ad aderire con una quota minima di 32 euro, sufficiente per diventare azionista di Shell.

Il colosso dell’energia ha annunciato che si sarebbe impegnato a dimezzare la propria impronta di carbonio entro il 2050, ma Follow This ha sottoposto a Shell una risoluzione per chiedere obiettivi più ambiziosi sul fronte del clima.

Il Greenwashing ha sicuramente cambiato forma nell’ultimo decennio in parallelo alla crescente consapevolezza del consumatore ma rimane un fenomeno molto diffuso e che è bene conoscere per imparare a tutelarsi.

Bibliografia

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https://www.nielsen.com/us/en/insights/article/2015/green-generation-millennials-say-sustainability-is-a-shopping-priority/
https://www.lifegate.it/azionisti-critici-shell

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