Non tutto ciò che è green sostiene l’ambiente

Eco, bio, green, naturale. Sono tutti termini che vediamo sempre più spesso sulle confezioni dei prodotti che acquistiamo quotidianamente. Dal carburante all’abbigliamento, passando per il cibo, sembra che tutti vogliano appiccicarsi un’etichetta green che spesso si traduce in una semplice azione di facciata per farsi vedere, agli occhi dei consumatori, come sostenibili e attenti all’ambiente. In poche parole, una pura azione di marketing. 

Esiste anche un termine preciso per identificare questa subdola strategia di comunicazione che inganna i clienti: greenwashing. Si tratta di una sincrasi tra il termine green e washing, ovvero una lavata di verde come lo tradurremmo noi in italiano. Una leggera patina verde sotto cui si nascondono le aziende che vogliono a tutti i costi risultare sostenibili e a impatto zero per farsi una buona pubblicità. E tutto questo perché il problema dei cambiamenti climatici è ampiamente dibattuto e vendersi come azienda ecosostenibile rappresenta un enorme vantaggio se si vuole attirare tutta quella clientela informata e sensibile alla crisi climatica.  

Il termine in questione risale al 1986, quando venne utilizzato per la prima volta da Jay Westerveld per criticare la pratica delle catene alberghiere di fare leva sull’impatto ambientale del lavaggio della biancheria per evitare che i clienti utilizzassero troppi asciugamani. Ovviamente si trattava solo di una strategia per risparmiare sui costi della lavanderia, nessuna etica sostenibile a supporto di questa prassi. 

Il termine è diventato ancora più noto tra gli anni novanta e duemila quando questa pratica si è diffusa tra molte aziende anche a seguito della maggiore attenzione a temi legati alla sostenibilità e all’ambiente diffusi sempre di più tra il pubblico.  

In tutto questo va ricordato che esiste anche il green marketing, che promuove prodotti, azioni e servizi più sostenibili nei confronti dell’ambiente.  

Di questo e di sostenibilità ne ho parlato con Michela Melis, Senior Research Fellow presso GREEN, il Centro di Ricerca sulla Geografia, le Risorse Naturali, l’Energia, l’Ambiente e le Reti dell’Università Bocconi di Milano, oltre ad essere membro del Green Economy Observatory – GEO, un ulteriore osservatorio di GREEN. È inoltre autrice di numerose pubblicazioni a tema greenwashing e svolge attività di ricerca nell’ambito del green marketing e della comunicazione ambientale. 

Che cos’è il green marketing e quali sono le sue strategie principali? 

Il green marketing è quella branca del marketing, tipicamente delle aziende, ma anche di tutte le organizzazioni, che affronta le prestazioni ambientali di impresa o di prodotto nell’ambito delle strategie di marketing stesse. È una disciplina, che in quanto tale, non nasce oggi perché di green se ne parla da decenni. I primi testi accademici su questa tematica sono di origine statunitense. Sicuramente in questo momento c’è una rinnovata attenzione nei confronti di questa disciplina perché le strategie di green marketing non sono più, come è capitato in passato, delle strategie di nicchia che si rivolgono a dei segmenti di mercato molto specifici e puntuali, ma stanno diventando sempre più pervasive, lo si vede soprattutto nei mercati dei beni di largo consumo. Ormai viene adottata, più o meno consapevolmente, da tante aziende in tanti settori, anche a prescindere dalle dimensioni d’impresa. In passato, le ricerche sulla profilazione del consumatore avevano stabilito che il cosiddetto consumatore green avesse caratteristiche sociali, sociodemografiche ed economiche molto specifiche: giovane, genere femminile e con livello di istruzione medio-alto. Oggi, come dimostrano gli studi sociologici più recenti, la tendenza è cambiata. Il consumatore green non è più inquadrabile in una determinata figura con caratteristiche specifiche di età, fascia di reddito e livello d’istruzione. Infatti, l’attenzione e la sensibilità nei confronti delle tematiche ambientali, che si traduce in un atto di acquisto green, è difficilmente catturabile da una ricerca di mercato standard. Le variabili da tenere in considerazione, che spesso sono valoriali e culturali, vanno al di là di fattori anagrafici, economici e d’istruzione.  

Ultimamente in moltissimi prodotti vengono inserite parole come bio, green, eco, naturale. Sta avvenendo un abuso di questi termini? 

Purtroppo, sì. Sicuramente lo si può vedere nei mercati dei beni di largo consumo come l’alimentare, la cosmesi e la detergenza, dove si riscontra spesso un utilizzo improprio di questi claim, talvolta accompagnati da un utilizzo altrettanto inadatto delle immagini. Nella logica del green marketing, il green claim è sì un testo o un termine, ma è anche l’immagine, un segno grafico e l’utilizzo del colore. Di frequente le aziende si stanno avvicinando a questo tipo di green marketing in maniera un po’troppo superficiale. Spesso le aziende realizzano campagne pubblicitarie e di comunicazione non propriamente corrette da un punto di vista dell’utilizzo di questi termini. Il fenomeno del greenwashing è sotto la lente dell’attenzione anche dalle istituzioni ed è evidente che ci sia un interesse crescente a normare l’utilizzo di questi termini, perché l’abuso e l’uso scorretto da parte delle aziende si traduce da un lato nel danneggiamento dei competitor, e dall’altro in un’informazione misleading sul mercato, che oltre a essere ingannevole nei confronti del consumatore, produce un senso di sfiducia che danneggia anche chi fa una corretta comunicazione ambientale.  

Quali sono gli aspetti comuni che si ritrovano nella maggior parte dei casi di greenwashing? 

La casistica più frequente è proprio quella dell’utilizzo di termini come sostenibileecosostenibile e green in maniera generica e superficiale. Quello che ho sempre sostenuto, lavorando anche con le aziende, non è tanto una condanna a priori dell’utilizzo di questi termini; nel senso che mi rendo conto che per poter parlare al mercato e al consumatore è necessario un linguaggio immediato e semplificato che arrivi al target di riferimento. Quello che sicuramente non va bene è che a questi claim non si affianchino dati numeri e che, quindi, non ci sia la sostanza di una prestazione ambientale migliore, per esempio rispetto al proprio prodotto precedente, o comunque anche in termini prospettici di un impegno quantificato rispetto alla riduzione dei propri impatti. Promuovere un prodotto green e ecosostenibile non è di per sé sbagliato, ma è necessario comunicare con dati accurati perché quel determinato prodotto dovrebbe essere più sostenibile rispetto ad altri. 

I casi di greenwashing possono essere frutto di ingenuità delle aziende oppure c’è proprio l’intento di ingannare il consumatore per dare l’apparenza di essere green?  

In realtà ci sono tutte e due le cose. Mi riferisco ovviamente al mercato italiano senza andare oltreoceano. Se si analizzano le definizioni anglosassoni di greenwashing c’è molta enfasi sulla volontarietà dell’essere ingannevole. In realtà, da quello che ho potuto osservare, le aziende si avvicinano a questi temi in buona fede e spesso il greenwashing è effettivamente il risultato di ingenuità e superficialità. In effetti, rispetto a quindici anni fa, i tempi sono diventati maturi e gli strumenti per calcolare le prestazioni ambientali dei prodotti e per comunicare correttamente ci sono. Di solito raccomando ad ogni azienda di fare comunicazione green se c’è qualcosa da comunicare, altrimenti il primo step da fare è lavorare per poter avere in futuro delle credenziali green spendibili sul mercato. Dove ci sono dei contenuti, ci sono anche gli strumenti per promuoverli sul mercato in modo corretto ed efficace. 

Un noto caso di greenwashing è quello che ha visto coinvolta l’ENI che, tra l’altro, è anche stata sanzionata. Esiste in Italia un organo di controllo che sanzioni questo tipo di campagne ingannevoli? 

Dal punto di vista di organismi di vigilanza e controllo abbiamo due soggetti: il primo è di natura pubblica ed è l’Authority e un secondo è di natura privata ed è lo IAP, l’istituto di autodisciplina pubblicitaria, a cui le aziende possono decidere volontariamente di associarsi. Lo IAP esercita un ruolo di controllo rispetto ai green claim utilizzati dalle aziende, ma esiste anche un codice di autodisciplina, sempre per verificare questi claim. 

I dibattiti sul clima porteranno le aziende a riconvertirsi verso uno sviluppo sostenibile oppure alimenteranno ancora di più il greenwashing?

 In realtà i green claim dedicati al clima sono quelli rispetto cui le aziende sono più consapevoli perché sono anche quelli che negli ultimi anni il cittadino ha incominciato a conoscere meglio. Parlare di impronta climatica è qualcosa di più famigliare al consumatore rispetto al parlare nel dettaglio a temi legati alla biodiversità, proprio perché il tema cambiamenti climatici ha raggiunto un livello di attenzione mediatica importante. Anche la spinta normativa e legislativa la farà da padrone su vari fronti, perché le aziende sono spinte sempre di più a contabilizzare i propri impatti in termini di emissioni. Quindi le aziende si avvicineranno sempre di più a questi temi, ma certamente alcune continueranno a farlo in modo improprio.  

 Tra i fattori da non trascurare ci sono sicuramente i costi. Quanto costa effettivamente riconvertirsi per diventare un’azienda sostenibile? 

Sicuramente i costi sono un problema. Facendo un discorso trasversale che comprenda tutti i settori e tutte le dimensioni d’impresa, è in corso un processo di transizione che non potrà essere arrestato. Non investire oggi nella sostenibilità o tardare a farlo è qualcosa che sempre di più avrà delle ripercussioni negative sulla sopravvivenza delle imprese. Anche da un punto di vista regolamentare le aziende saranno chiamate sempre di più a migliorare le proprie prestazioni.  

Quanto è importante comunicare il valore della sostenibilità ai consumatori? 

È importante, ma ancora di più è farlo bene. Ci sono conseguenze sia se lo fai male sia se non lo fai. Non comunicare nulla rispetto alle proprie prestazioni ambientali è un rischio perché se tutti comunicano e tu non lo fai diventa quasi legittimo per il tuo cliente farsi delle domande sul perché tu non lo faccia. Anche la non azione diventa un messaggio esplicito al mercato, magari non voluto. Se comunichi male ti esponi ad una serie di rischi; il primo è quello sanzionatorio, che potrebbe anche tradursi in un esborso monetario non previsto che in alcuni casi non impatta troppo sul bilancio dell’impresa; il secondo si porta dietro un inevitabile danno d’immagine e reputazione che è molto più difficile da colmare. A questo bisogna aggiungere che oggi, i consumatori, sono molto più attenti e precisi nelle loro richieste alle aziende rispetto alle loro performance ambientali. L’esempio più lampante, che abbiamo tutti sotto gli occhi, è quello dell’utilizzo dei social media. Gli utenti possono fare domande su questi temi direttamente alle aziende ed esigono anche delle risposte puntuali. Il rischio, in questo caso, è che una risposta o una campagna di comunicazione sbagliata diventi virale e generi un danno reputazionale faticoso da gestire da una azienda. 

 Quali sono alcune strategie per comunicare efficacemente la sostenibilità? 

La cosa più importante è appunto comunicare la sostenibilità se si ha qualcosa da comunicare. Sicuramente la sfida è quella di riuscire a coniugare la correttezza della comunicazione con la sua efficacia. Quello che si comunica deve essere veritiero, attendibile, chiaro e verificabile e sostenuto da dati solidi; sotto questo aspetto c’è il mondo delle certificazioni di parte terza che possono svolgere un ruolo fondamentale. Non bisogna mai dimenticare che si comunica sui mercati in contesti con determinate caratteristiche di fruibilità dell’informazione e di velocità con cui queste nozioni vengono veicolate e assorbite dai destinatari. Bisogna anche trovare le formule giuste perché è difficile comunicare al consumatore inondandolo di una marea di dati tecnici e scientifici che non sarà in grado di recepire. Quel tipo di comunicazione sarà sicuramente basata su dati veritieri, ma rischierebbe di essere inefficace. La sfida che le imprese sono chiamate ad affrontare è quella di trovare il modo giusto per tradurre quei numeri complessi in un messaggio corretto, ma che abbia un suo appeal e faccia leva sulla sfera emotiva del consumatore. Non dimentichiamoci che la capacità di attrarre il consumatore e fargli sentire che il messaggio di una determinata azienda è condivisibile, per la sua sfera di valori e la sua identità, è un passaggio fondamentale. Questo lo si può fare con le nuove tecnologie perché consentono un’interazione diretta immediata, soluzioni grafiche accattivanti che in passato non si utilizzavano e di associare ad un claim che abbia un certo appeal, informazioni approfondite e rigorose, grazie anche all’accessibilità dei media. Normalmente si ragiona su una stratificazione progressiva delle informazioni che devono essere facilmente accessibili per il consumatore e accompagnate dalla volontà delle aziende di spiegarle.  

 In Italia a che punto siamo sotto questi aspetti? Siamo indietro o a buon punto? 

Sicuramente siamo a buon punto se consideriamo come molte aziende si sono mosse negli ultimi anni. La comunicazione errata e il greenwashing spinto è sempre facile da intercettare sul mercato, ma è anche vero che molte aziende negli ultimi anni si sono mosse nel modo corretto e hanno fatto dei passi da gigante sotto questo punto di vista. In effetti possiamo vantare diversi casi di comunicazione che effettivamente è vincente dal punto di vista della strategia di green marketing proprio perché è riuscita ad avere successo in quella sfida di cui parlavo prima, ovvero ad essere corretta e a comunicare numeri e prestazioni che dietro hanno uno studio, in un modo comunicativo comprensibile, fruibile e senza complessità inutili per il consumatore. 

Per capire meglio come funziona il greenwashing, ho analizzato due casi che mettono in luce i meccanismi che si celano dietro a questo tipo di campagne.  

Auto a idrogeno: gas sostenibile? 

Negli ultimi anni hanno incominciato a circolare pubblicità sulle macchine a idrogeno che, da ormai una decina di anni, ricercatori e politici considerano come una valida alternativa a benzina e diesel.  

Lo stesso Bush, quando era presidente degli Stati Uniti, era convinto che entro il 2010 le macchine a idrogeno sarebbero state allo stesso livello di quelle a benzina. Le cose sono andate ben diversamente perché ad oggi, secondo l‘Agenzia internazionale dell’energia (AIE), circolano solo 11.200 auto a idrogeno, mentre le auto elettriche stanno prendendo sempre più piede. Anche per questo motivo la maggior parte delle case automobilistiche stanno puntando sempre di più all’ibrido e l’elettrico abbandonando o mettendo in secondo piano l’idrogeno. Soltanto Toyota, Hyundai e Honda stanno continuando a percorrere questa strada.  

Fin qui, probabilmente, nulla da contestare. Le auto a idrogeno sembrano effettivamente una valida alternativa sostenibile alla controparte a benzina, perché non emettono gas serra e altri inquinanti. Anche il fatto che le emissioni delle auto a idrogeno si riducano a semplice acqua pura e vapore sembra una valida soluzione al problema dei cambiamenti climatici ed è anche l’aspetto su cui puntano le pubblicità che circolano su queste rivoluzionarie autovetture. Infatti, digitando su google “auto a idrogeno” tra i primi risultati troviamo la pagina web dedicata alla Toyota Mirai, un’auto a idrogeno che promette zero emissioni, solo gocce d’acqua.  

Il vero problema, che queste pubblicità non mettono in luce, è che l’idrogeno non si trova allo stato puro in natura. Per produrlo è necessario isolare le sue molecole che si trovano in sostanze come l’acqua e il petrolio. Il combustibile a idrogeno, quindi, si ottiene producendo energia e l’energia si ottiene a partire dai combustibili fossili.  

Certo, l’energia si può ottenere anche da fonti rinnovabili, ma non tutti i metodi per separare l’idrogeno ne prevedono l’utilizzo.  

Innanzitutto, bisogna dire che l’idrogeno viene definito in diverso modo in base a come è stato prodotto. Può esistere, infatti, l’idrogeno “grigio”“blu” e “verde”.  

La variante grigia si ottiene tramite una reazione di riforming con vapore, in cui l’idrogeno è generato a partire da idrocarburi, come il metano, e vapore acqueo. Questo processo produce un’elevata quantità di CO2 per ciascuna tonnellata di idrogeno prodotta, rendendo il processo inquinante. Si tratta anche del metodo più utilizzato e meno costoso: solo 1,5 dollari al chilo. 

Ecco che la promessa delle emissioni zero viene meno. L’auto emetterà solo vapore acqueo, un gas innocuo per l’ambiente, ma per produrre l’idrogeno che permette all’auto di funzionare le emissioni ci sono state eccome e certamente non eco-sostenibili.  

L’idrogeno blu, invece, è leggermente più costoso: 3,5 dollari al chilo. Anche in questo caso si produce una grande quantità di CO2 che, invece di essere rilasciata, viene immagazzinata sottoterra per evitarne la dispersione nell’atmosfera. 

Infine, c’è la versione verde, l’unica veramente a emissioni zero, che si crea partendo da un processo di elettrolisi in cui l’idrogeno viene separato dall’acqua tramite una macchina detta elettrolizzatore. Si tratta di un procedimento che ha bisogno di molta energia per funzionare e per essere definito un metodo effettivamente a emissioni zero deve necessariamente produrre energia da fonti rinnovabili. Per questo motivo il prezzo si aggira tra i quattro e gli otto dollari al chilo. 

Potenzialmente un’innovazione efficace, ma non ancora abbastanza matura per rendere la produzione di idrogeno rispettosa dell’ambiente o efficiente in termini di costi. Il fatto che molte case automobilistiche non siano ancora pronte a lanciare sul mercato il proprio modello a idrogeno, dimostra che c’è ancora molta strada da fare. Inoltre, bisogna considerare che sono necessarie delle apposite infrastrutture per rifornirsi di carburante a idrogeno mantenendo dei prezzi contenuti.  

Ci scontriamo di fronte a una realtà: l’idrogeno non potrà mai essere considerato un’alternativa “pulita” finchè si continueranno ad utilizzare combustibili fossili per produrlo. Questo problema è stato semplicemente spostato dalle auto a una catena di produzione precedente, non portando, sostanzialmente, a un effettivo beneficio in termini ambientali.  

In sostanza ne vale la pena? La risposta è no. Serve una grande quantità di energia per produrre idrogeno e anche se questa proviene da fonti rinnovabili tanto vale evitare di investire in questa tecnologia quando si può acquistare direttamente un’auto elettrica.

Una sanzione per ENI 

La pubblicità ENIdiesel+, che ha circolato tra il 2016 al 2019, è considerato un caso di greenwashing, uno tra i primi ad essere sanzionato con una multa da cinque milioni di euro. La sentenza è arrivata dopo una denuncia da parte di Legambiente, del Movimento Difesa del Cittadino e da Transport & Environment (T&E) ed erogata dall’Autorità Antitrust.  

Come si legge nel comunicato stampa pubblicato il 15 gennaio 2020 dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, ENI è stata sanzionata «per la diffusione di messaggi pubblicitari ingannevoli utilizzati nella campagna promozionale che ha riguardato il carburante Eni Diesel+sia relativamente all’affermazione del positivo impatto ambientale connesso al suo utilizzo, che alle asserite caratteristiche di tale carburante in termini di risparmio dei consumi e di riduzioni delle emissioni gassose». 

Il carburante in questione viene definito, dalla multinazionale, biodiesel o anche semplicemente green diesel perché promette più attenzione all’ambiente e una riduzione dei consumi e delle emissioni rispettivamente del 4% e del 40%.  

Secondo AGCM «nei messaggi si utilizzavano in maniera suggestiva le qualifiche “componente green” e “componente rinnovabile”, e altri claim di tutela dell’ambiente, quali “aiuta a proteggere l’ambiente. E usandolo lo fai anche tu, grazie a una significativa riduzione delle emissioni”, sebbene il prodotto sia un gasolio per autotrazione che per sua natura è altamente inquinante e non può essere considerato green». 

Questi green claim, deriverebbero dalla presenza, nella sua versione di biodiesel, di una componente del 15% di HVO (Hydrotreated Vegetable Oil) che in questo caso provengono dall’olio di palma grezzo, un olio che l’Unione Europea ha già classificato come insostenibile. Oltre a questo, ENI giustificherebbe l’aumento del prezzo di questo carburante del 10%, proprio perché sostenibile, bio e rinnovabile. 

L’Italia è, al momento, il secondo produttore in Europa di biodiesel da olio di palma. Nel 2018 il 54% di questo olio è stato utilizzato proprio per produrre questo tipo di carburante, utilizzato soprattutto per camion e auto. La maggior parte dell’olio di palma sul mercato, deriva da piantagioni dell’Indonesia e della Malesia, due Paesi in cui il tasso di deforestazione è schizzato alle stelle negli ultimi dieci anni. È quindi da considerare come una delle principali cause della distruzione di foreste pluviali e della perdita di fauna selvatica. Nonostante le campagne e le petizioni di successo per ridurne l’utilizzo nei prodotti alimentari, continua ad aumentare l’utilizzo di olio di palma nei biodiesel. In un rapporto di Legambiente, intitolato Enemy of the Planet, si legge che «gli studi internazionali hanno dimostrato che il 30% delle nuove coltivazioni di palma e l’8% di quelle di soia, utilizzati per la produzione di biocombustibile poi importato nel nostro Paese per le bioraffinerie di ENI, hanno comportato distruzione di foreste vergini, di brughiere e di praterie. Si stima che un litro di olio di palma determini emissioni indirette di CO2 pari al triplo dell’equivalente di petrolio e un litro di olio di soia il doppio». 

 La Commissione europea ha quindi deciso di modificare i criteri di sostenibilità dei biocarburanti di prima generazione con la Direttiva Rinnovabili che prevede un congelamento della produzione di biodiesel ai livelli del 2019, per il periodo 2021 – 2023, con l’obiettivo di abbandonare definitivamente l’utilizzo di olio di palma entro il 2030.  

Tra le novità introdotte a partire dal nuovo anno scolastico, ci sarà anche l’insegnamento di una nuova materia: sviluppo sostenibile. L’Italia sarà la prima al Mondo a rendere obbligatorie trentatré ore di educazione ambientale. Potrebbe, quindi, sembrare un paradosso che sia proprio ENI a formare i docenti, visto che il core business dell’azienda rimane ancora il petrolio. Le prime a mobilitarsi sono state le insegnanti di Teachers for Future, un gruppo che fa parte di Fridays for Future, che hanno dichiarato in una lettera che «come Teachers for future Italia non possiamo che prendere le distanze da questa iniziativa che coinvolge una delle grandi aziende mondiali che causano cambiamento climatico e contaminazione del Pianeta attraverso l’estrazione senza limiti dei combustibili fossili, che è già stata riconosciuta responsabile di immani disastri ambientali, corruzione, sfruttamento dei Paesi poveri e che tenta di dipingere di verde la sua anima nera attraverso costante e pressante attività di greenwashing». 

Solo nell’ultimo anno, ENI ha prodotto 1,9 milioni di barili di petrolio al giorno e ha speso, nel 2019, 73 milioni di euro in pubblicità e attività di comunicazione. Secondo il rapporto Enemy of the Planet«nel 2018 ha investito solo 143 milioni di euro per investimenti tecnici in sviluppo di progetti rinnovabili, economia circolare e digitalizzazione». 

Il greenwashing può quindi essere considerata un’operazione di marketing e, come per ogni pubblicità, bisogna stare attenti e cercare di riconoscerlo se si vuole diventare dei consumatori consapevoli e rispettosi dell’ambiente.

Fonti

https://www.wisesociety.it/economia-e-impresa/greenwashing/
https://www.tuttointornoanoi.it/come-smascherare-il-greenwashing-delle-aziende/
https://www.scientificamerican.com/article/greenwashing-green-energy-hoffman/
https://www.ilpost.it/2020/10/25/auto-idrogeno/
https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2020/4/ENI-interrompe-la-pubblicit%C3%A0-ingannevole-relativa-al-gasolio-ENI-diesel
https://www.wheels.iconmagazine.it/novita/eco/auto-a-idrogeno-pro-contro
https://www.toyota.it/gamma/nuova-mirai/landing
https://www.ilsole24ore.com/art/multa-5-milioni-all-eni-diesel-green-e-pubblicita-ingannevole-ACeTx6BB
https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2020/1/PS11400
https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2020/4/ENI-interrompe-la-pubblicit%C3%A0-ingannevole-relativa-al-gasolio-ENI-diesel
https://www.legambiente.it/maxi-multa-per-eni-ha-ingannato-i-consumatori-sul-green-diesel/
https://www.greenme.it/muoversi/biodisel-eni-antitrust-pubblicita-ingannevole/amp/
https://www.valori.it/climate-change-greenwashing-eni-olio-palma/
https://www.watergrabbing.com/leni-nelle-scuole-italiane-e-tempo-di-scegliere-tra-futuro-e-greenwashing/
https://www.legambiente.it/wp-content/uploads/Dossier-ENI-2019-Legambiente.pdf
https://www.thesubmarine.it/2020/08/05/greenwashing-eni-scuola/
https://www.watergrabbing.com/leni-nelle-scuole-italiane-e-tempo-di-scegliere-tra-futuro-e-greenwashing/


Ancora nessun commento.

Lascia una risposta