Il clima del giorno dopo: quattro domande a Giorgio Vacchiano e Nicola Armaroli

Abbiamo raccolto delle domande dei ragazzi che non siamo riusciti a porre ai relatori durante il convegno “Il clima del giorno dopo”: ecco alcune delle risposte.

Giorgio Vacchiano

1 – Ma tutte le aziende che promettono di piantare un albero ogni tot prodotti venduti poi se ne prendono cura? Perché se, come ha detto lei, poi li lasciano morire, non ha molto senso.

Domanda giustissima, hai centrato il punto! Sarebbe bello che invece di “piantare” parlassimo di migliaia, o milioni, di alberi di cui “prenderci cura”. Soprattutto nei primi anni di vita, un periodo in cui l’alberello (che normalmente si pianta molto giovane dopo essere stato cresciuto per due o tre anni in un vivaio specializzato) è ancora piuttosto fragile ed esposto alle siccità o agli animali che potrebbero considerarlo un prelibato banchetto verde. Dopo sei o sette anni, se l’albero è sopravvissuto bene, possiamo normalmente considerarlo “attecchito”: la chioma e le radici sono ormai abbastanza sviluppati per garantirgli una buona fotosintesi e un buon assorbimento di sostanze nutritive dal suolo. Attenzione eh, parliamo sempre di alberi in città, quelli cresciuti da soli in natura in genere non hanno bisogno del nostro aiuto e sanno cavarsela da soli molto bene, perché sono nel loro ambiente naturale. 
“Prendersi cura” degli alberi, irrigarli se manca l’acqua, proteggerli dal morso delle lepri e dei roditori, richiede due cose: esperti in grado di farlo, e soldi per pagarli. Per questo motivo, la cura agli alberi viene spesso trascurata e considerata come un costo inutile – invece si puó trasformare in un investimento, perché è proprio questa cura che rende possibile per gli alberi crescere sani e forti e darci tutti i loro benefici, anche nelle nostre città.

2 – si potrebbe prevenire o sconfiggere la desertificazioni in alcuni luoghi? se si come? C’è qualcosa che possiamo fare come individui per proteggere i boschi che ci circondano?

La “desertificazione” si riferisce al processo che porta un suolo a perdere gradualmente acqua e soprattutto sostanze nutritive, fino a diventare sterile e non piú utilizzabile per l’agricoltura. E’ un grande pericolo soprattutto perché fa diminuire la terra coltivabile e quindi la produzione di cibo, specialmente in zone aride o povere del mondo dove la sicurezza alimentare è già a rischio. Ed è strettamente legata alle migrazioni: chi non riesce piú a coltivare la terra non ha altra scelta che spostarsi in cerca di una vita migliore. 
Le cause della desertificazione possono anche essere naturali, ma normalmente queste agiscono molto lentamente – oggi invece i suoli tendono a perdere acqua e fertilità a causa dell’uomo: in particolare, a causa dell’aumento delle siccità e dell’erosione causato dalla crisi climatica, e soprattutto per lo sfruttamento eccessivo di alcune risorse naturali, come il prelievo di acqua per irrigazione o usi industriali (che impoverisce le grandi falde acquifere) la deforestazione, e il pascolo eccessivo o non pianificato. Anche in Italia esistono aree a rischio desertificazione, quasi tutte al Sud: ben l’80% del territorio in Sicilia, e poi in Puglia, Sardegna, Calabria e Basilicata.
Le soluzioni sono due: interrompere lo sfruttamento eccessivo dell’acqua e dei pascoli, con leggi e assistenza a agricoltori e pastori per garantire produzioni piú sostenibili, e ripristinare l’equilibrio perduto. Per farlo, piantare alberi è un’ottima idea! Gli alberi infatti modificano il microclima, aumentando l’umidità e generando addirittura da soli la nebbia o la pioggia, se ce ne sono abbastanza. In piú, contribuiscono alla creazione di un nuovo suolo fertile, fatto dalle foglie che cadono e si decompongono e dai piccoli animali che se ne nutrono e le trasformano chimicamente. E’ la strategia seguita in Cina, che ha piantato oltre 35 milioni di ettari di foreste (il triplo di quelle totali che abbiamo in Italia) negli ultimi anni, proprio per fermare l’avanzata del deserto. Un progetto simile, chiamato Grande Muraglia Verde, è in corso nel Sahel, la regione a sud del deserto del Sahara, dove la desertificazione avanza velocissima. 
Per proteggere i boschi e lottare contro la desertificazione e la deforestazione, ciascuno di noi puó iniziare a domandarsi da dove provengono le cose che compriamo: scopriremo che il cibo o i vestiti che usiamo fanno viaggi lunghissimi in giro per il mondo prima di arrivare ai nostri negozi. E se riusciamo a capire che quelle cose sono state fatte in aree a rischio di deforestazione o desertificazione (gli stati del Sahel, il Brasile, l’Indonesia…) dovremmo pensarci bene prima di acquistarle!
Esiste un sito molto interessante, che ci racconta quanta acqua è stata utilizzata per realizzare le cose che consumiamo. Vi consiglio di dargli un’occhiata: ne scoprirete delle belle, e potrete provare a indirizzare le scelte di acquisto verso oggetti a basso contenuto di “acqua consumata”. Potete anche provare a calcolare la vostra “impronta d’acqua” personale: chi riesce ad abbassarla di piú, vince! 

3 – Piantare più alberi è sempre la risposta giusta? Ci sono delle circostanze in cui troppi alberi potrebbero nuocere alla popolazione? qual è il limite?

In genere, piantare (e curare) alberi è positivo per il nostro clima e per noi stessi. Ci sono peró alcune situazioni particolari, in cui piantare alberi puó essere effettivamente negativo per il clima. 
La prima riguarda le zone boreali del nostro pianeta, quelle vicine al Polo Nord per intenderci. Qui il terreno è spesso ricoperto dalla neve, che essendo di colore molto chiaro, riflette molto bene i raggi del sole, facendoli “rimbalzare via” e mantenendo bassa la temperatura superficiale. Aggiungere alberi qui vorrebbe dire rendere il terreno più scuro  – sia perché gli alberi sono verdi, sia perché, in inverno, impedirebbero alla neve di depositarsi al suolo. Come in una macchina blu o nera in un caldo giorno d’estate, il colore scuro assorbe i raggi del sole, non li fa rimbalzare via, e quindi scalda il terreno e l’ambiente.
La seconda possibilità è quando piantiamo alberi con il solo obiettivo di produrre rapidamente legno e ricavarne denaro. Certamente, di legno abbiamo sempre un gran bisogno, ma c’è modo e modo di “creare” una foresta. Ancora troppo spesso, gli alberi che vengono piantati, per esempio ai tropici, sono tutti uguali, tutti della stessa specie e delle stesse dimensioni. Al confronto di una foresta naturale, questo tipo di ecosistema è un “deserto verde”: piace a pochissimi animali, ed è molto suscettibile ai danni di vario tipo, come ad esempio gli incendi. Molto meglio, invece, sforzarsi di creare vere e proprie “foreste”, con molte specie diverse di alberi, grandi e piccoli, dove gli animali trovino molte nicchie ecologiche e dove la diversità degli alberi rappresenti una garanzia di sicurezza anche in caso di danni climatici. 

4 – Cosa ne pensa della scomparsa delle foreste di Kelp?

In effetti esistono anche foreste sottomarine! Il kelp è una specie (anzi, diverse specie) di alghe, che possono raggiungere dimensioni molto grandi (fino a  80 metri di lunghezza). Queste alghe formano quindi vere e proprie foreste, con molte specie diverse sia di piante che di animali che le frequentano, e sono importantissime per l’assorbimento di CO2 e la produzione di ossigeno a livello planetario.
Anche loro stanno diminuendo, ma la “deforestazione” ha una causa molto specifica: la pesca eccessiva e sregolata! L’uomo infatti non distrugge direttamente il kelp, ma pescando un numero eccessivo di pesci predatori, rischia di interferire con le popolazioni animali in modo da lasciare un numero eccessivo di pesci erbivori, che quindi mangiano il kelp e, continuando a moltiplicarsi a dismisura, lo fanno diminuire a gran velocità. Un esempio molto studiato è quello delle lontre marine in Alaska, intensamente cacciate dall’uomo in passato: senza di loro, i ricci di mare di cui si nutrono si sono moltiplicati, e questi ricci si nutrono proprio di alghe kelp. Risultato: da una foresta sottomarina, a un “deserto” sottomarino popolato solo di ricci, e praticamente privo di vegetazione.
Per questi motivi, e anche per altri impatti sulla biodiversità marina, ci sono molti studi che propongono di stabilire “zone vietate alla pesca”, anche temporaneamente, per ridare fiato alle popolazioni di pesci e ristabilire quegli equilibri dai quali anche noi dipendiamo.

Nicola Armaroli

1 – È vero che per mantenere in vita il sistema del web si produce una grande quantità di anidride carbonica?

Si stima che il funzionamento web generi circa il 2% delle emissioni di CO2. Non una quota enorme in relazione all’immenso lavoro che svolge.
Qui una interessante infografica con idee e numeri.

2 – Si sente dire che entro qualche anno il progetto ITER (energia da fusione nucleare) sarà in funzione. Secondo Lei questo potrebbe contribuire in modo significativo o è solo un’utopia? Cosa ne pensa dello sfruttamento dell’energia nucleare come sostituto dei combustibili fossili?

La fusione nucleare, anche secondo i suoi promotori, non potrà essere disponibile prima di 30 anni. E c’è chi ritiene (come il sottoscritto) che è improbabile che sarà mai disponibile. Comunque troppo in là nel tempo per poter incidere nella transizione energetica che deve essere sviluppata in maniera netta proprio nei prossimi 30 anni.
Il nucleare da fissione è una tecnologia che non ha mai risolto i suoi problemi di sicurezza e smaltimento scorie. E’ una opzione sconfitta dal mercato che assumerà un ruolo sempre più marginale nel panorama della produzione elettrica.
I rischi di investimento in questo settore sono troppo alti. Ormai la concorrenza delle rinnovabili è imbattibile.

3 – Come viene considerato lo stoccaggio di carbonio (CCS) sostenibilmente parlando?

La cattura e lo stoccaggio della CO2 sono tecnologie studiate da anni senza alcuna prospettiva di diventare tecnologicamente accessibili su larghissima scala (come sarebbe necessario!) e competitive sul mercato. Per capire che la cosa non sta in piedi, alcuni numeri: attualmente l’umanità consuma circa 5 miliardi di tonnellate di petrolio l’anno, un liquido eccezionale da cui si ricavano innumerevoli prodotti utili. Il valore annuale del mercato globale del petrolio greggio ammonta a circa 1500 miliardi di dollari, assumendo il prezzo attuale di 40 dollari al barile. È un mercato immenso e radicato nel sistema economico mondiale; sono stati necessari decenni per metterlo in piedi. Bene, la domanda è: quale sarebbe la prospettiva e il senso economico di creare un’infrastruttura complessa per catturare un gas che non serve a nulla e che deve essere semplicemente sotterrato? Chi costruisce questa gigantesca infrastruttura e chi la paga? Non bisogna poi dimenticare che la quantità di CO2 che produciamo annualmente (36 miliardi di tonnellate) è oltre 7 volte (!) la quantità di petrolio.
E’ una strada senza futuro. L’unico modo di evitare l’immissione di CO2 in atmosfera è bruciare sempre meno combustibili fossili.

4 – in che modo la diminuzione del pH oceanico è legata al riscaldamento?

Il riscaldamento è provocato dall’eccesso di CO2 in atmosfera. L’oceano assorbe circa il 30% della CO2 che rilasciamo in atmosfera.
Quando la CO2 si scioglie in acqua genera acido carbonico, un acido debole che porta ad una progressiva acidificazione dei mari.

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