Non si può brevettare il sole. La ricerca biomedica pioniera dell’Open Science

L’annuncio da parte della casa farmaceutica Jannsen di rinunciare all’applicazione, in ben 128 Paesi, dei propri diritti di brevetto per il Duranavir, porta all’attenzione del pubblico il tema dello scopo della ricerca scientifica e dei mezzi che impiega.

L’azienda, parte del gruppo Johnson & Johnson, ha confermato e aumentato, nel Maggio 2015, il suo impegno nell’ambito del progetto di trattamento dell’Hiv pediatrico animato dal Medicine Patent Pool, un consorzio sostenuto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa di salute pubblica in Paesi del Terzo Mondo e in via di sviluppo.

Il gruppo, nato nel 2010 da una costola di UNITAID, si pone l’obiettivo di rendere libero l’accesso a farmaci di alta qualità per il trattamento di Hiv in Paesi a basso reddito pro capite, e a partire dal 2016 allargherà gli obiettivi della sua mission, avviando progetti per la libera diffusione di farmaci contro Epatite C e Tubercolosi.

Pensato inizialmente solo per l’Africa subsahariana, il piano di rinuncia all’applicazione dei diritti di brevetto è stato esteso da Jannsen a un’area molto maggiore, permettendo di raggiungere il 99,8% dei bambini e degli adolescenti che nel Mondo sono affetti da Hiv.

Nei Paesi in cui verrà applicata questa politica, le case farmaceutiche potranno liberamente produrre e distribuire versioni generiche – purchè clinicamente accettabili, precisa la Jannsen – del Duranavir per uso pediatrico, senza timore di incorrere in violazioni dei diritti di brevetto, in modo che la tutela della proprietà intellettuale non vada a confliggere con la libertà della ricerca scientifica e coi suoi obiettivi.

Il caso della ricerca medica, in particolare nelle sue applicazioni pediatriche, mette in luce quelle che sono le contraddizioni dell’industria biomedica in un contesto di libero mercato: le aziende produttrici si interessano della qualità della ricerca per poter massimizzare il proprio profitto, ma lo scopo della ricerca stessa è tutt’altro.

Il brevetto del vaccino contro la poliomielite appartiene alla gente”, commentava Jonas Salk, il virologo che più aveva contribuito alla sua formulazione del 1955, guadagnandosi, con la rinuncia ai diritti di brevetto da parte della National Foundation for infantile paralysis, l’appellativo di “padre adottivo dei bambini di tutto il mondo”. Negli anni ‘50 del ‘900, la poliomielite era, del resto, una malattia che colpiva ancora tra i 13.000 e i 19.000 bambini ogni anno nei soli Stati Uniti d’America, causando gravi malformazioni ossee e paralisi: di fronte a numeri come questi Salk rinunciò completamente alla possibilità di brevettare il vaccino e sfruttarlo a fini di lucro; alle espressioni di incredulità dei giornalisti replicava invitando a riflettere: “è forse possibile brevettare il sole?”.

Sono passati decenni, ma la questione della condivisione delle scoperte scientifiche ha accompagnato ogni nuova ricerca. È il 22 aprile 2013 e l’intervistatore del “World Wide Rome – Open Science – Io sono la mente”, un evento dedicato al premio Nobel Rita Levi Montalcini, si sente rispondere da Ilaria Capua “è stata solo un’operazione di buon senso”.

Era il 2006 quando la ricercatrice fu ribattezzata dal Wall Street Journal “Lo scienziato italiano che si ribella al sistema” per aver dato inizio a un dibattito internazionale sulla trasparenza dei dati, che ha cambiato i meccanismi alla base dei piani prepandemici. In quell’anno aveva decodificato, e successivamente reso pubblica, la sequenza genica del virus dell’aviaria, malgrado l’offerta dell’OMS di depositarla in un database ad accesso limitato. Con la sua decisione di sfidare il sistema e depositare la sequenza del primo ceppo africano del virus H5N1 in GenBank, un database aperto, e non in un database ad accesso limitato, ha riportato alla luce la questione del libero accesso ai dati scientifici e della scienza pubblica e collettiva, che accelera i progressi e i risultati della ricerca.

Questo gesto ha innescato una corrente democratica sulla rete ed è quindi cresciuto l’interesse verso una gestione più trasparente dei dati. Ilaria Capua è uno dei più importanti esempi moderni dei risultati che si possono raggiungere aprendo la scienza. L’Open Science non si limita a consentire l’accesso a dati e risultati: la versione moderna della scienza aperta consente a chiunque di poter partecipare in modo attivo alla ricerca. La sua presa di posizione ha portato a cambiare la politica delle organizzazioni internazionali: ora OMS, FAO e OIE promuovono e sostengono la trasparenza dei dati ed un approccio interdisciplinare per migliorare la preparazione ad affrontare minacce globali come le pandemie.

Ha ricevuto il premio Scientific American 50 ed è stata inclusa fra le “Revolutionary Minds” dalla rivista americana Seed per il suo ruolo di leadership nella politica della scienza. È stata la prima donna e la prima under sessanta a vincere il Penn Vet World Leadership Award, il più prestigioso premio nel settore della medicina veterinaria.

Tutt’ora incredula per una “popolarità internazionale incredibile per aver fatto un atto di buonsenso”, che va nella direzione del “io ci credo in quello che faccio”, entrata in politica ha cercato di migliorare la diffusione della scienza su due piani, che riguardano entrambi la condivisione delle conoscenza. Il progetto a breve termine proposto consisteva nel permettere di pubblicare i risultati dei ricercatori che ottengono investimenti dallo Stato, su riviste Open Access; il secondo programma prevedeva che fossero pubblicati su piattaforme web libere i report, sia dei progetti che finanziari, delle ricerche finanziate con soldi pubblici, fossero anche risultati negativi. Perché persino un risultato negativo è un risultato e, nell’ottica della condivisione della scienza, può essere utile ad altri studi ed espandere così la conoscenza pubblica.

Un’ideale di conoscenza come bene comune e una pratica scientifica strutturata intorno alla condivisione sistematica di risultati e mezzi di ricerca che va sempre più diffondendosi, ma che non è priva di ombre e contraddizioni: le informazioni di pubblico accesso sono esposte all’utilizzo per fini nobili e filantropici, come fu per il “papà” del vaccino contro la polio o, più di recente, per gruppi di ricerca che hanno possibilità monetarie limitate ma è anche concreto, in un’epoca di terrorismo globalizzato, il rischio di dare una mano involontaria a “bioterroristi” organizzati, e fu del resto proprio questa una delle prime critiche mosse alla Capua.

Senza poi evocare gli spettri di immani minacce globali, la diffusione di dati sensibili e il libero accesso ad essi può innescare rischi ben più prosaici: se i gruppi assicurativi potessero accedere liberamente a dati medici di singoli individui – magari all’insaputa degli stessi – potendo stimare ad esempio la probabilità di insorgenza di malattie, come gestirebbero la negoziazione di premi e polizze?

Gli aspetti problematici della condivisione dei dati sono molteplici e non risparmiano alcun settore della società, non ultimo quello del funzionamento vero e proprio delle pratiche di ricerca: brevettare un vaccino significa, certo, limitarne la possibilità di modifica e la capacità di sfruttamento da parte di enti terzi, ma del resto lo rende disponibile – a determinate condizioni – e tutela a livello finanziario e di riconoscimento l’autore o il gruppo che ha realizzato il brevetto, incrementandone la capacità di condurre ulteriori e proficue ricerche.

Quella dell’Open Science si rivela quindi una pratica dalle enormi potenzialità, resa però complessa da un groviglio di aspetti contraddittori che dovranno, col suo continuo sviluppo nella realtà concreta della ricerca, dipanarsi e rendere possibili nuovi percorsi per una scienza che sia sempre più aperta e condivisa.

 

Alessia Pioggia e Andrea Solito de Solis

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