Sarà l’Open Access la chiave che apre le porte della conoscenza scientifica?

Quanto vale (e costa) l’accesso alla conoscenza scientifica? Di fronte alle regole imposte dal mercato il mondo della ricerca sta sempre più stretto in quell’evocativo “non ha prezzo” e in tanti considerano appropriato rispondere “una follia!”.

C’è una rivoluzione in atto. I tempi sono maturi per una trasformazione nel mondo della cultura contemporanea e qualche sedia potrebbe presto scricchiolare ai piani alti delle più importanti case editrici delle maggiori riviste scientifiche internazionali. L’accesso aperto alla conoscenza prodotta dal mondo della ricerca non è più un ideale ipotizzato da visionari, ma una alternativa a cui sempre più istituzioni si rifanno nel nome della trasparenza e della condivisione dei dati da pubblicare.

Da una sponda all’altra dell’Atlantico sono iniziative preziose quelle che vedono Stati Uniti ed Europa investire nell’Open Access per la pubblicazione dei contenuti della ricerca realizzata con fondi pubblici.

Lo stesso Barack Obama si è reso portavoce di una proposta innovativa pervenuta da una piattaforma di petizioni online, firmata da migliaia di cittadini, che chiedeva la disponibilità ad accedere liberamente entro un anno agli articoli scientifici e ai dati prodotti con fondi pubblici. La direttiva arrivò subito nel 2013: tutte le agenzie federali che investono in ricerca e sviluppo più di 100 milioni di dollari l’anno devono elaborare un piano affinché i risultati delle ricerche che finanziano siano liberamente accessibili al pubblico entro un anno dalla loro pubblicazione.

Horizon 2020 analogamente  obbliga alla pubblicazione in Open Access della ricerca prodotta coi suoi fondi in Europa nel periodo 2014-2020. La Commissione ha definito l’accesso aperto come mezzo fondamentale per migliorare la circolazione delle conoscenze e l’innovazione in Europa e ha raccomandato agli Stati membri di adottare un approccio analogo nei loro programmi nazionali.

Ma di quale editoria stiamo parlando? Due sistemi a confronto

Elsevier, Sage, Wiley, Springer, Taylor & Francis sono alcune delle più importanti case editrici for profit o commerciali, che cercano cioè di trarre i massimi profitti soprattutto attraverso gli abbonamenti venduti alle istituzioni, ai centri di ricerca o alle università. Qui valgono le leggi del mercato tradizionale: il lettore paga per accedere a una conoscenza scientifica di qualità ed è disposto a spendere cifre elevate per usufruire di questi contenuti. Il paper scientifico può essere infatti considerato come un bene insostituibile: ogni paper riprende una ricerca unica e un “pezzo” di conoscenza che non potremo riprodurre identica altrove. Per questo un articolo non è mai uguale a un altro e per questo il suo valore può diventare “inestimabile”.

Qui l’editore commerciale ha grande autonomia e può giocare al rialzo sul prezzo del suo prodotto. Questo modello del “reader pay” è dominato da pochi editori a livello planetario i quali detengono nel loro portafoglio fino a 3.000 testate specializzate ciascuno. La revisione dei contenuti è affidata alla comunità ben individuata e ristretta della peer review, ricercatori ed esperti che competono nella materia in oggetto e sono in grado di valutare metodo e risultati dello studio esposto in maniera anonima. I reviewers non richiedono alcun compenso per questa attività.

Cosa prevede, invece, il modello “author pay”? Un rovesciamento del sistema. Sono gli autori delle ricerche che pagano per vedere pubblicato il loro articolo su piattaforme, soprattutto online, di lettura gratuita per gli utenti. Alla base di questo modello c’è una ragione etica: rendere le informazioni disponibili a tutti gratuitamente. La peer review è comunque garantita nelle stesse modalità del sistema “reader pay”. Anche questo modello ha i suoi limiti: sostenere la pubblicazione richiede sforzi economici che non tutti gli autori possono permettersi. Ancora, alcune inchieste hanno posto in luce il rischio di scarsa o cattiva selettività da parte di alcune riviste.

A fronte però di alcune riviste totalmente in Open Access, esistono altre di natura ibrida dove l’utente finale paga la sottoscrizione dell’abbonamento, ma gli articoli (e solo quelli) la cui fee è stata già pagata (da autori, istituzioni, fondazioni, etc.) sono liberamente accessibili a chiunque li voglia leggere.

Prezzi “aristocratici”

In tutti questi modelli, chi guadagna? Comunque gli editori, che traggono ricavi dall’accordo economico stabilito con l’autore che voglia pubblicare il suo lavoro. Secondo alcuni, però, l’Open Access rimane la via maestra nella corsa a erodere il potere delle tradizionali case editrici i cui fatturati hanno tuttora volumi strabilianti.

Secondo il dato pubblicato e riportato sul Sole 24 ore del 13 dicembre 2015 “l’industria editoriale scientifica ha fatturato nel 2013 più di 10 miliardi di dollari”: mentre la crisi imperversava sulle maggiori economie mondiali, le case editrici scientifiche vedevano aumentare il giro d’affari anche oltre il 30%. Il prezzo di una rivista può oscillare, a seconda del settore e del prestigio, da qualche centinaio di euro fino a 20-30mila euro e facendo una media sommaria è stato calcolato che un singolo articolo può arrivare a costare anche 5.000 euro. Lontano da quel dire “prezzi democratici”. Semmai, prezzi “aristocratici”.

Perché soltanto gli istituti e le università più ricchi potranno permettersi gli abbonamenti più rilevanti mentre ad altre realtà sarà negato l’accesso a una fetta consistente della ricerca. E c’è di più. Non è soltanto una questione di consultazione, ma di pubblicazione. Le istituzioni associate agli editori di cui sono sostenitrici avranno più facilità di accesso alla pubblicazione delle loro ricerche, inducendo un circolo (probabilmente) vizioso che permetterà di aumentare la forbice del divario dei risultati tra società scientifiche facoltose e quelle che invece non lo sono. Il meccanismo, infatti, coinvolge i ricercatori sul piano della carriera e del prestigio del proprio lavoro di fronte alla comunità scientifica internazionale.

Autori all’indice… H

Dimmi quanto scrivi e ti dirò quanto vali. Per quantificare la prolificità e l’impatto del lavoro degli scienziati, dal 2005 si ricorre a uno speciale indicatore, l’indice di Hirsch (o più comunemente indice H) che si basa sia sul numero delle pubblicazioni che sul numero di citazioni ricevute.

Le stesse riviste scientifiche rispondono a una classifica che ne quantifica l’impact factor, ossia il peso e lo spessore dei propri contenuti rispetto ai competitors (e indirettamente il costo dell’abbonamento). Pubblicare sulle riviste ad alto impact factor aumenta l’indice H dell’autore e il numero di citazioni del suo studio da altri articoli moltiplica il dato agevolando il suo avanzamento nel ranking internazionale dei ricercatori. “Publish or perish” si dice in gergo, per sottolineare la necessità di un autore di pubblicare i suoi studi per guadagnare prestigio e visibilità e – soprattutto – sperare di ottenere maggiori fondi al proprio lavoro.

Non a caso, visti i ritmi di crescita del numero degli articoli scientifici e delle riviste che li ospitano, è subentrato un nuovo motto a rappresentare la situazione del ricercatore oggi, che deve fare della pubblicazione dei suoi studi la prima preoccupazione, da cui “publish and perish”.

A questo meccanismo però, una parte sempre più consistente della comunità scientifica sta cominciando a dire di no. Esistono vere e proprie campagne di boicottaggio all’abbonamento verso i maggiori editori scientifici. Una di queste si chiama “The cost of knowledge” e ha raccolto quasi16 mila adesioni da parte di ricercatori, tra cui spiccano nomi prestigiosi.

La campagna non si batte soltanto contro la questione dei prezzi inaccessibili ma mette alla berlina tutto il modello editoriale a pagamento. I sostenitori di questa campagna ribadiscono che utilizzare siti web aperti sarebbe molto più conveniente ed eviterebbe alla collettività di pagare la ricerca scientifica tre volte: la prima quando sostiene il sistema che forma il ricercatore, la seconda quando finanzia la sua ricerca pubblica, la terza quando attraverso le università pubbliche acquista gli abbonamenti alle riviste che contengono gli articoli provenienti dalle stesse ricerche. Una valanga di firme, finalmente, si oppone a questo spreco perché come direbbe Totò “ ‘cca nisciuno è fess!”.

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